La mia Africa è nel volto di Salif, il ragazzo bambino che lavora come operaio tuttofare nell’orfanotrofio. In mezzo ai tanti bambini rumorosi e impegnativi che hanno accompagnato le nostre giornate a Yako quel viso schivo e operoso, poteva passare inosservato ma se lo guardavi bene capivi che rappresentava il futuro di molti di quei bambini che abbiamo incontrato in giro nelle strade del Burkina Faso. Salif ha 13 anni è in quella fase della vita che da noi si chiama adolescenza ma a Yako è già considerato un adulto in tutti i sensi. Lavora in continuazione. Arriva in orfanotrofio quando il sole è ancora flebile, nel chiaroscuro che separa il giorno dalla notte e da subito inizia a lavorare. Si occupa dei piccoli appezzamenti di terreno all’interno dell’orfanotrofio coltivati a miglio e cipolle. Vanga, zappa, sdradica la malerba, non annaffia perché ci pensa la pioggia essendo questa la stagione e poi si sposta per governare le cinque capre dell’orfanotrofio. E poi sistema la legna, gira la ruota del pozzo, aiuta a trasportare i secchi d’acqua. Insomma non si ferma mai fino a sera con il sole appena tramontato quando riprende il suo carretto trainato da un mulo che lo riporta a casa. L’unica pausa che fa è a pranzo quando appartato in un angolo mangia con le mani voracemente il pasto dell’orfanotrofio, quel pasto che lo sfama e che rappresenta la sua paga giornaliera. Come accade per la maggior parte delle persone che lavorano qui.
In quest’altra parte della luna Salif è considerato un uomo ma il suo sguardo quando osserva gli altri bambini intenti a giocare tradisce il ruolo che la comunità gli ha affidato. Porta avanti il suo lavoro con dedizione, con competenza e sembra quasi con convinzione. Ma quando lo vedi costruire l’altalena insieme a Cesare, uno dei volontari del nostro gruppo, cogli immediatamente la voglia di stare dall’altra parte. È uno di quei desideri che nasce da dentro e che seppur uno cerca di contenerlo dentro di sé gli occhi fanno intravvedere quello sconquasso nell’anima, quell’istinto fanciullesco, insito dentro di lui, che gli ordina di buttare tutti gli altri strumenti di lavoro e salire su quel pezzo rettangolare di legno legato a due corde e spingere con i piedi a terra fino a lasciarsi andare in alto, per scendere e poi risalire, dondolarsi nell’aria per sentirsi chissà un uccello, un aereo, un supereroe, o più semplicemente un bambino che gioca.
Ma non lo fa, gli hanno detto che lui è un uomo. Lo si vede chiaramente che rimarrà in lui quel senso di impotenza, di auto castrazione. Tocca le corde dell’altalena come se fossero le trecce di una donna, con una smania che disarma. Lo guardo, mi guarda. È una frazione di secondo. E aiutandomi con un gesto della mano rompo gli indugi: “vai Salif, fatti un giro!”. Le mie parole sono per lui un dono inaspettato calato dal cielo. Sale velocemente sull’altalena e si lascia andare. Su e giù. Stop. Scende e spalanca la bocca mostrando i denti bianchi. Sorride come un bambino, anzi sorride perché è ancora bambino. Ma poi si ricompone e torna ad essere uomo, come è normale che sia qui a Yako.
di Gianfranco Marcucci