Diario di viaggio

Alcune mie riflessioni di fine missione

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Ouagadougou, 25 maggio 2015

Fine missione… anche se io non vedo mai la fine ma solo un saluto temporaneo.
Sono stati venti giorni duri e pieni di realtà, una realtà che ogni volta sento più vicina e credo debba appartenere a tutti gli abitanti di questo pianeta. Qui in Burkina Faso le persone si alzano la mattina e debbono affrontare problemi vitali come la scarsità d’acqua, cibo ed istruzione mentre la gran parte di noi occidentali continua a guardare chissà cosa volendo arrivare chissà dove.

Io arrivo ogni volta volentieri in questa terra arsa dal sole. In questa missione di Animo Onlus ho seguito la costruzione di tre pozzi in luoghi dimenticati dal mondo dove sono certa che solo il loro dio riesce a dargli la forza di tenere duro perché è davvero inumano vivere senza possibilità di facile accesso all’acqua. Ne ho patito anche io che comunque al ritorno di ogni viaggio l’acqua l’ho sempre trovata nella mia camera!
Oltre ai pozzi ho seguito la costruzione di una scuola in un villaggio di più di ottomila persone dove le classi attualmente sono composte da 80/100 bambini. Mi piace l’idea che creiamo spazi per l’istruzione che serviranno poi a rendere liberi e sapienti questi ragazzi al punto da poter decidere del proprio futuro e comprendere pienamente la fortuna delle radici che li tengono ben saldi a terra.

Sempre sul fronte dell’istruzione ho seguito la costruzione di un’altra scuola che noi di Animo stiamo realizzando. In questo caso la situazione che ho trovato è stata più complicata ma dopo vari sopralluoghi e con un forte senso di comprensione, unione e pragmatismo hanno fatto sì che io riparta tranquilla e certa che le criticità siano definitivamente superate.

Tiro le somme e mi sento di aver fatto il possibile per fare il meglio per queste persone che ogni giorno mi hanno regalato un sogno, un sorriso, una canzone, un’emozione, un abbraccio, nonostante siano schiacciati da una terra debole e affaticata e da una dittatura durata troppo tempo per permettere di rialzarsi facilmente.
Torno in Italia ma con me porto il Burkina Faso con tutti i suoi problemi e tutta la sua voglia di vivere.
Vi lascio con una canzone che mi ha accompagnato in questi giorni africani.
VIVE SANKARA!

Alessia Lana
Responsabile di missione – Animo Onlus

Accendi la luce. Accendi la speranza | Diario di viaggio

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Il viaggio è stato lungo e a tratti faticoso. Ci siamo spinti dentro questo territorio fino quasi a lambire i suoi confini con il Ghana, il pannello fotovoltaico lo abbiamo dovuto montare sul tetto della jeep e affrontare un tragitto di quasi quattro ore metà del quale su tratte dissestate e pregare il cielo di non perderci per strada il prezioso carico.

Dal finestrino scorrono costruzioni di terra cruda che si alternano a quelle in mattoni più moderne, colonne di persone in bicicletta, motorini, minibus, carretti trainanti da asinelli che ai bordi della via maestra superiamo avvolgendoli in una nuovola di polvere. Persone che si spostano o che spostano cose lungo gli assi di vie di comunicazione che sembrano non portare da nessun parte. Sfilano i maestosi baobab, alcuni piantati nel suolo da tempi immemorabili per un uomo, gli alberi di mango dalla folte chioma a generare un ampio diametro d’ombra sottostante dove trovano riparo capre, asini o buoi che pascolano liberamente apparentemente senza padroni.

L’arrivo nei villaggi è sempre un’emozione forte. Capita spesso, come in questo caso, che alcuni abitanti vi vengano incontro a qualche kilometro dalle abitazioni in sella ad un motorino per indicarvi la strada e poter così annunciare anticipatamente il vostro arrivo al resto della popolazione. All’apertura dello sportello vi ritrovate circondati da decine e decine di bambini, incuriositi dalla presenza dell’uomo bianco che qui come in molti altri villaggi è un evento che sa di eccezionalità. Tutti gli sguardi sono puntati su di noi.

Bienvenue!

Nel scrivere il resoconto di questi ultimi giorni provo una grande emozione nel potervi informare che abbiamo accesso la luce nella scuola di Yerba Peulh. Abbiamo concesso la possibilità alla comunità di poter aver accesso all’energia elettrica in maniera autonoma con l’installazione del pannello fotovoltaico sul tetto della scuola garantendo l’illuminazione dello stabile attraverso quattro punti luce e la possibilità di ricarica elettrica attraverso l’installazione di due prese da 220v.

D’ora in avanti si aprono nuove possibilità per gli abitanti del villaggio di poter usufruire di questa risorsa attraverso la realizzazione di corsi serali per le donne, l’impiego da parte dei professori della struttura nelle ore diurne per la preparazione delle lezioni o della semplice ricarica dei dispositivi cellulari che anche qui è uno strumento diffuso per le comunicazioni interpersonali.

Un ringraziamento speciale va a Lorenzo Atzori, il più anziano del gruppo, l’esperto tecnico che ci ha accompagnato in questo viaggio e che è stato il primo artefice della messa in opera del circuito elettrico alimentato ad energia solare. Le sue capacità ma soprattutto la sua caparbietà ci hanno permesso di superare alcune difficoltà tecniche dovute al contesto di lavoro in cui ci siamo trovati ad operare (un tetto di lamiera su cui installare la struttura, il caldo intenso, la mancanza di poter reperire altro materiale oltre a quello che avevamo portato con noi).

L’altro ringraziamento lo rivolgo a tutti coloro che hanno creduto in questo progetto e vi hanno voluto partecipare facendo così in modo di poter accendere una speranza.

Vi porto anche il ringraziamento sentito dell’intera comunità che nei nostri confronti si è manifestato nell’ospitalità ricevuta durante il nostro soggiorno, dall’accoglienza festosa che abbiamo trovato al nostro arrivo, alla preparazione dei pasti da parte delle donne, alle innumerevoli mani che hanno voluto stringerci per un saluto.

Il nostro viaggio in Burkina Faso continua con il monitoraggio dei altri progetti già avviati nelle precedenti spedizioni, con la possibilità di tornare con nuove richieste d’intervento, da trasformare in progetti e poi in realtà concrete come quella che abbiamo costruito insieme, perchè se uno sogna da solo è solo un sogno, se tutti facciamo lo stesso sogno è l’inizio di una nuova realtà

Massimiliano Desiderio

Aggiornamento da Yako

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Wend bip tiri, “Dio sa che ci siamo”, questo il nome dell’orfanotrofio che ad oggi ospita 29 bambini abbandonati da un destino che gioca brutti scherzi. C’è chi si trova qui perchè la propria madre non ha superato il parto ed il padre non può prendersene cura; c’è chi è figlio di una madre pazza che aveva perso gli occhi in una nottataccia e senza conoscere il padre e senza essere cosciente piu di tanto di se stessa lascia per strada un cucciolo innocente, c’è chi anche non ha fisicamente nessuna figura e quindi i parenti più prossimi chiedono aiuto a queste strutture, a questa struttura che ormai da 25 anni (festeggiati lo scorso 20 ottobre) sotto la guida di persone dal cuore grande, Maman Albertine, e dal figlio Alain, cerca di rendere la vita vita di questi piccoli un pò meno amara e chiede aiuto a noi “poveri dentro” per permetterle di dare un abbraccio in piu a questi bambini.

Animo si impegna da tre anni affinchè questo sia possibile,affinchè questi bambini oltre a una permanenza degna di una vita nella struttura possano avere anche delle armi per poter crescere all’interno di essa. Tutto questo entrando sempre in punta dei piedi e lasciandoci guidare direttamente da chi questa terra la vive,da chi questa cultura ce l’ha dentro,cioè da Maman ed Alain.
Sono tre anni che tocco con mano la realtà di questo orfanotrofio e purtroppo, oltre ad interventi per sopperire emergenze di tipo monetario, non c’è mai stato quel salto in piu che potesse rendere questo posto autonomo, tranne uno spiraglio di luce nell’ultima missione nel mese di dicembre, dove, con l’intervento di due persone, qualificate nell’ambito educativo e medico si è guardato oltre.

Siamo arrivate e lo scenario d’impatto è sempre forte, sia dal punto emozionale che dal punto delle condizioni igieniche (sia per me che ormai sono abituata,sia per le ragazze che ancora piu subiscono l’impatto). Troviamo bambini ammassati in terra piangenti nella lunga attesa di fare il bagno, accerchiati da animali vari e pipi e cacca sparsi da ogni parte (letti, in terra ed anche addosso ai bambini) e in tutto questo le nouricces che inermi e passive lasciano che tutto passi cosi.
Da tutto questo le due ragazze si rendono conto che l’intervento piu utile da fare non è direttamente con i bambini ma con le donne che seguono quest’ultimi e direttamente con Maman ed Alain.
Nella prima sera, accompagnate da una buonissima cena preparata dalle donne addette alla cucina ed insieme ad Alain e Maman ci si comincia a confrontare sul lavoro da fare nei giorni successivi, ascoltando le richieste di aiuto di una Maman Albertine stanca, provata dalla lontananza di Leonie e che non riesce piu a vedere come riuscire a far capire alle nourices il modo piu giusto di LAVORARE con i bambini, di accompagnarli nella crescita, cercando di sopperire alle mancanze affettive che inseguono questi bambini. Ci fa presente che prima del nostro arrivo ha cercato di parlare con loro, di metterle davanti ad una necessità di impegno maggiore da parte loro e soprattutto di responsabilità e regole. Questo discorso ci apre le porte, ci far rendere conto che la strada che si voleva percorrere è la stessa e questo ci riempie il cuore….allora si parte!

Si organizza insieme ad Alain per i giorni successivi un corso di formazione teorico\pratico insieme a tutte le donne che lavorano nell’orfanotrofio. L’affluenza è tanta, con qualche piccola assenza in giorni alterni.(da sottolineare che alcune donne finivano il loro turno di 24 ore e rimanevano al corso).
Nonostante i tempi di spiegazione era molto lunghi,in quanto c’era il passaggio in tre lingue diverse, le donne hanno sempre mantenuto un grado di attenzione e coinvolgimento sempre alto.
Preambolo alla formazione attento a spiegare le nostre intenzioni di aiuto e non di imposizione, di donar loro i mezzi per riuscire a rendere il loro LAVORO piu leggero e divertente, con delle piccole nozioni riguardo l’importanza di stimolare i bambini, mostrate direttamente con esercizi fisici su se stesse, nei quali si sono divertite molto! Nei giorni seguenti abbiamo ricevuto molti ringraziamenti da parte di Maman che non smetteva di dirci quanto aveva bisogno che qualcuno l’aiutasse all’interno dell’organizzazione lavoro con le nourices… ci spiega che non tutte le donne fanno il loro dovere, non amano come lei vorrebbe questi bambini e che tra tutti i corsi di formazione fatti, nessuno le aveva permesso di comprendere e studiare la psicologia dei bambini per lei sempre stata una cosa da voler approfondire. Nei momenti di riposo ci si confrontava con le donne, con Maman ed Alain per capire se quello che si faceva venisse capito e fatto proprio e la dove non c’erano cose chiare, le due ragazze sono sempre state pronte a mostrare insieme a loro le attività e i ruoli da svolgere. Nozioni e giochi hanno fatto poi spazio ad una richiesta di Maman ed Alain di dare direttamente delle regole nello svolgere il LAVORO con i bambini ed anche organizzativo degli spazi e cosi insieme ad Alain si è pensato di fare dei fogli-lavoro nei quali le donne potessero direttamente controllare i punti di attenzione. Di tutto il lavoro delle nourices con i bambini e non, Maman e Alain soprattutto, saranno i diretti supervisori.

I punti generali che nel corso dell’intervento delle due psicologhe\educatrici sono stati toccati, sottolineati, sono stati l’importanza dell’igiene degli spazi e del bambino (pannolino obbligatorio, facendogli capire che se cosi fanno, il lavoro diminuisce…. ci saranno meno panni da lavare, meno lenzuolini e spazi piu sani e puliti anche per loro che qui ci passano l’intera giornata) e l’importanza della figura della nourices all’interno dell’orfanotrofio, fondamentale quanto delicata per lo sviluppo fisico\cognitivo dei bambini e per questo deve essere un ruolo attivo. Donne che venivano a ringraziare le due educatrici per i lavoro fatto ogni giorno, per i mezzi donatogli e la possibilità in questo di vedere chi veramente, all’interno dell’organico, può fare la differenza e magari spronare le altre a fare lo stesso.

Sicure di non aver imposto nulla, ma di aver dato voce ad un aiuto che fa guardare lontano,che guarda ciò che veramente è importante, i bambini ricordandoci che una volta tornati a casa saranno loro a giovare di un buon lavoro fatto o ad essere ancora una volta abbandonati dietro un lavoro passivo. Maman ci abbraccia e spera di poter vedere di nuovio questi “angeli” come ha identificato Patrizia e Cecilia che le hanno ridato un pò di forza per crederci ancora.

Alessia Lana

Il sorriso nonostante…

633 388 Animo ODV

Animo Onlus
Un sorriso è quello che ti accoglie, è quello che ti saluta, tradisce uno stato d’animo, sdrammatizza, aiuta ad orientarsi, ti facilita la comunicazione, un sorriso è sinonimo di allegria.
Non sempre, il sorriso a volte è l’espressione vera di un popolo, la sintesi più assoluta dei sentimenti, può essere una moneta di scambio, l’unica che si ha in tasca, l’unica priva di prezzo, può nascondere insicurezze o gioie profonde ma è comunque un sorriso: non ha colori, non ha idiomi, è l’unico linguaggio universale, è lo stesso da Roma a New York, da Singapore a Rio, da Tokio a Ouagadougou.
Ha significati diversi questo è vero.
Vederlo sulla bocca di un ragazzo benestante e felice è quasi un’abitudine (o almeno dovrebbe esserlo!)… vederlo scintillare sulla bocca carnosa di un bimbo nero nerissimo di Yako fa tutto un altro effetto, credetemi.

E’ da qui che tutto nasce, da questi sorrisi a denti bianchi bianchissimi, che riflettono su una pelle nera come la notte, gli occhi che brillano di una luce sconosciuta, e tu che devi girarti per forza, l’attenzione richiamata come ci fosse una calamita, ecco si…il sorriso diventa calamita. Tutto nasce da questo, perché è il sorriso sincero e profondo dei bambini di Yako che ci ha portato fino a questa terra lontana, dimenticata un pò da tutti, perché priva di interessi economici, presente in nessuna rotta di mercato, senza alcuna meta turistica, senza mare, senza montagne, senza strutture, senza possibilità di crescita reale (almeno a breve termine)…una terra dimenticata e disillusa ma con un’enorme risorsa…migliaia e migliaia di bambini, armati solo dei propri sorrisi che dalla loro hanno il diritto di provarci, di provare a crescere, di provare a far qualcosa di concreto, di importante..o solamente di tentare di coltivare un sogno, in questa che anche se dimenticata e disillusa è la loro Madre Terra.
Di quei sorrisi ci siamo innamorati a migliaia di km di distanza e quei sorrisi ci aprono la strada quando ancora un pò scossi e sudaticci varchiamo il cancello malandato dell’orfanotrofio Wend Mib Tiri di Yako – Burkina Faso – Africa .
Li troviamo lì sul pavimento antistante il dormitorio, tutti seduti, sistemati e pronti ad accoglierci, come in un dipinto di Matisse, vestiti colorati appartenuti a chissà quale bambino di chissà quale parte del primo mondo, lo sguardo di chi non sa cosa l’aspetta, l’attesa negli occhi di chi non vede l’ora di lasciarsi andare al primo vero, profondo, sincero sorriso. E così qualcuno rompe gli indugi, inizia un girotondo, le voci si fanno più chiassose, i bambini si lasciano coinvolgere, noi ci lasciamo alle spalle i nostri pensieri troppo strutturati e seri, iniziamo ad intonare le canzoncine dei nostri bambini, nella nostra lingua, le mani si sfiorano, il contatto c’è stato. Le risate aumentano. Finalmente siamo arrivati.

Ti trovi di punto in bianco a stabilire un contatto molto intimo con i bambini…nessuno ti chiede se tu sia pronto o no, non c’è tempo non si può..pronti via c’è da visitarli, le dottoresse allestiscono un piccolo ambulatorio da campo, l’odore del disinfettante ti arriva impietoso nelle narici, un buco al muro e la bilancia è appesa, si comincia. E allora via di corsa a caricare secchi d’acqua per lavare i bambini, per lavarli tutti, per far vedere alle donne che li accudiscono che investire qualche minuto in più per la pulizia e l’igiene dei piccoli è importante quanto dargli da mangiare, che strofinare il sapone su quelle pance gonfie e dure, sciacquare bene le parti intime e cambiare l’acqua ogni tanto, non sono gesti inutili di chi l’acqua è abituato a sprecarla, bensì precauzioni per prevenire le inevitabili migliaia di infezioni. Ed è lì che ci scorrono davanti uno per volta tutti i bambini dell’orfanotrofio, i più piccoli che piangono e cerchi in tutti i modi di consolarli, i più grandi che ti aiutano, che collaborano e che negli occhi lasciano trasparire una fierezza mai immaginata. Sono bambini, non ci devono ingannare le immagini che li vedono ritratti in lavori manuali, anche pesanti, carichi di secchi di acqua, a distribuire da mangiare ai più piccoli, a trainare l’asino, a domare le pecore..sono bambini e lo riconosci dalle risate chiassose al primo giro di altalena, dall’ insistenza a volerti salire in braccio ad ogni costo, dalla voglia profonda di tenerti la mano, di addormentarsi sulla tua spalla. Sono bambini ai quali è stato negato forse il primo sacrosanto diritto ad esserlo, l’affetto, il rifugio, l’abbraccio, la comprensione, elementi che solo una mamma può dare, ma loro questa mamma non ce l’hanno….ma sorridono anche nonostante questo.

Pian piano che passano i giorni all’orfanotrofio si conoscono sempre meglio i bambini, ci si affeziona al primo che ti tira il pantalone o la gonna, al primo che ti cerca per giocare, al primo col quale dividi un biscotto. L’obiettivo è praticare l’allegria, lo slogan risuona anche impresso col gesso bianco sul muro dei nostri alloggi, non è difficile farlo e l’aiuto arriva proprio dai bambini, Victorien, Armand, Claire, Nadia sono i piu grandi e sono i primi a seguirci nei giochi, ad aiutarci nei lavori improvvisandosi validi assistenti, i primi che sperimentano i nuovi giochi. Noi ci appoggiamo a loro, sono loro che chiamiamo per coinvolgere gli altri, per condividere questa nuova, passeggera realtà che per un pò gli regalerà la possibilità di essere protagonisti ogni giorno, in fondo siamo qui per loro e loro questo lo sanno.
Ogni bambino nasconde una storia, ogni storia suscita emozioni, la maggior parte delle volte sono storie tristi, di abbandoni forzati, di amore negato, una comunità ancorata a tradizioni tribali che non riesce ad accettare le “diversità”, un albino non è figlio di Dio, la nascita di due gemelli non è cosa buona, il figlio di una mamma malata è figlio del diavolo, il risultato di un incesto è inammissibile, e via dicendo… ce ne sarebbero a centinaia di storie da raccontare, storie di una realtà che fa a cazzotti con la nostra, di una comunità che mette al margine i propri figli. E’ così che si riempiono gli orfanotrofi, è così che se qualcuno viene mosso da spirito benevolo e crea una struttura che possa accogliere gli “scansati” viene a sua volta vista con occhio malevolo. Non possiamo farci nulla, è la terra in cui si nasce a dettare le regole, a noi non spettano giudizi di valore ma solo la pura e semplice presa di coscienza della realtà. Mamma Africa è anche questo. Può essere spietatamente ostile con i propri figli.
E ancora li vedi sorridere, senza chiedere nulla in cambio, donarti il più sincero dei gesti, il più puro dei regali, e ti ritrovi a far lo stesso, a ridare un senso all’allegria, a dargli un valore, a scoprire che nel gioco si cresce, a sentirti importante, a ringraziarli di averti riportato a dormire per terra, a usare l’acqua come fosse una risorsa senza sprecarne la minima goccia, a fare l’occhiolino alla luna, a emozionarti nel veder volare un aquilone.

di Emiliano Giacinti

Burkina Faso, alla ricerca del tempo perduto

633 270 Animo ODV

Animo Onlus
L’Africa ti avvolge come gli abbracci istintivi che le mamme riservano ai loro figli davanti ai quali ti viene naturale affidarti e arrenderti. E così è stato per me e il gruppo di volontari che ha partecipato nel settembre appena trascorso al progetto umanitario a favore dei bambini dell’orfanotrofio di Yako nel Burkina Faso, del quale VoiceOver è parte integrante.
Una volta atterrati nella capitale Ouagadougou mi è bastato salire su un taxi in sette per strade polverose in mezzo a un formicaio umano che si sposta con ogni mezzo per scoprire di essere arrivato in un altro mondo, di trovarmi avviluppato appunto tra le braccia di Mamma Africa.
Mi sono accorto di questa diversità soprattutto quando ci siamo spostati a Yako, a circa 100 km dalla capitale dove l’Africa vera, quella incontaminata, ti viene addosso senza chiederti il permesso. Il villaggio è un perfetto presepe in stile batik. Hai la sensazione di vivere un viaggio a ritroso nel tempo e ti rievocano che sei a loro contemporaneo solamente vecchi motorini rumorosi, poche auto scassate, le migliaia di telefonini nelle mani di colore nero della gente e le maglie dei club europei di calcio indossati dai più giovani.

Ai lati di strade polverose di terra di un rosso accesso quando rischiarate dal sole inciampi nella vita degli uomini che abitano qui. In mezzo ad una vegetazione esuberante e rigogliosa con alberi pieni di foglie di un verde intenso, quasi innaturale, incontri gente che si muove in continuazione con carrettini trainati da muli, biciclette piene di sacchi, carriole con sopra terra o legna. Non è inusuale che gli uomini camminino scalzi quasi per non perdere il contatto con la Madre Terra. Tutto avviene fuori a case per lo più simili a baracche realizzate con mattoni fangosi e tetti in paglia o lamiera. Si lavora, si cucina, si socializza in strada. Solo l’amore è dispensato in pubblico. Ma credo se ne faccia tanto vista la grande quantità di figli che si aggirano in gruppetti per le vie di Yako. I negozi vendono ogni cosa e a volte in maniera bizzarra. Puoi trovare il gommista che vende polli cotti su improbabili braci, il sarto che ti offre tra i vestiti sapone a scaglie, il barista che vende bevande salmastre insieme a bottiglie di gasolio.
In questa colorata atmosfera le mie narici sono invase da un odore di legna bruciata mischiato a vampate di tanfo, provenienti dall’immondizia sparsa per terra quasi a simbolo della povertà del posto.
La vita degli abitanti di Yako è ritmata dalle leggi della natura, dalla luce del sole e dal ritmo delle stagioni. Gli uomini si alzano presto la mattina in cerca di fortuna che altro non è che la ricerca di un lavoro giornaliero, sono poche le persone che hanno una professione stabile. Si lavora prevalentemente nei campi e la paga giornaliera è molto spesso solamente il pasto che il datore di lavoro ti concede comprendendo anche la famiglia al seguito. Una volta arrivata la sera, si va a dormire attendendo un nuovo sole per ricominciare il giorno dopo allo stesso modo. La stessa danza per tutta la vita. Davanti a questa realtà a me nuova e ingenuamente bucolica, i miei occhi non possono che sorridere e le mie mani salutare questi nostri fratelli che a loro volta contraccambiano calorosamente perché qui si usa così.

È innegabile la percezione di visitare un paese povero mentre con la nostra jeep passiamo tra le strade del villaggio. Lo senti nelle viscere che stai attraversando un luogo che conosce ogni giorno fame, malattie e sofferenze inaudite, dove è molto facile cadere sulla morte mentre sei distratto ad osservare la vita che scorre lenta, scandita dal ritmo del sole. Ed è una sensazione che fa male e che ti fa provare impotenza. Cosi come disarmano le pance dure come le pietre dei bambini malnutriti e sporchi che incontri per strada o negli orfanotrofi. Ma nello stesso tempo sei rassicurato dai visi delle persone che sono sereni e fieri perché pienamente assorbiti in una dimensione naturale che li accompagnerà per tutta l’esistenza.
L’errore più grande che si può commettere davanti a questa loro diversità è giudicare con le nostre categorie valoriali, con la nostra prosopopea occidentale. C’è bisogno di rispetto per questa loro vita che è semplicemente “altra”, né diversa né inferiore.
La via verso la felicità in Burkina Faso è legata indissolubilmente al soddisfacimento dei bisogni primari: fisiologici e di sicurezza personale e parentale. La qualità della vita non è certo misurata sull’asse temporale anche perché qui la morte non è esorcizzata ma è parte integrante del brutale gioco del vivere.
A differenza delle società a capitalismo avanzato, l’Africa ti dà la possibilità di intravvedere con maggiore chiarezza la struttura e le radici della nostra esistenza, il senso profondo del nostro cammino nel mondo essendo la sua cultura per lo più scevra di sovrastrutture consumistiche, di bisogni secondari che siano essi affettivi, relazionali o d’affermazione del sé nei quali invece noi nuotiamo a volte perdendoci.

Questa terra arsa dal sole mi si è presentata come l’altra parte della luna, quel tempo perduto delle nostre esistenze che le società in cui viviamo in occidente hanno saputo solamente celare ma non cancellare del tutto essendo esso stesso parte di noi. L’Africa è un termine di paragone, una cartina di tornasole sulle degenerazioni del nostro sistema economico e sociale. Una spina nel fianco da eludere perché rappresenta ciò che saremmo potuti essere se il nostro progresso fosse rimasto in qualche modo legato alla tradizione contadina, al contatto con la natura come auspicava Pierpaolo Pasolini nella sua denuncia contro il consumismo quale massimo responsabile della distruzione di un mondo «reale», trasformato in una totale «irrealtà». Un “mondo antico” che ti porta a riflettere sui concetti di benessere, consumo, crescita e tecnologia che per noi occidentali sono naturali e gratuiti come lo scorrere dei fiumi. E invece come afferma Michele Serra “questa credenza in cui si basa tutto il nostro quotidiano, tutta la nostra politica è scientificamente assurda, irrazionale come la più arcaica delle superstizioni”. E per di più, rende “scelleratamente occulti i costi, i guasti, i rischi di un sviluppo che poggia, invece, su un prelievo sempre più massiccio e scriteriato di risorse limitate”.
Di fronte al precipizio morale ed economico noi occidentali dalla pancia piena abbiamo paradossalmente molto da imparare da questo ossimoro che è il popolo africano: affamato e appagato nello stesso tempo. L’Africa è un cammino nell’anima, uno stato mentale nuovo che acquisisci e che inesorabilmente ti cambia perché scopri ciò che ti manca. Ma queste considerazioni non possono esimerci dalle nostre responsabilità. Le distorsioni del nostro sistema produttivo e le sofferenze sovrastrutturali che viviamo e che sono il pane di psicanalisti e di sciamani con partita iva fortunatamente non giocano a dadi con la morte. Per questo motivo abbiamo il dovere morale di aiutare questi popoli che soffrono materialmente. Deve essere solo questo l’imperativo categorico che ci anima e porta ad impegnarci per la loro emancipazione. Ma sia chiaro, deve essere un aiuto non intrusivo, non colonizzatore. Sarebbe altrimenti un crimine. Si rischierebbe di affondare uno degli ultimi luoghi in armonia con la natura, forse l’ultimo pezzo di terra ancora non invaso dal fumo grigio dell’omologazione di massa e dal magma informe della più moderna globalizzazione.

di Gianfranco Marcucci

L’Africa e la cattiva cooperazione

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Animo Onlus
La migliore cooperazione possibile per aiutare l’Africa sarebbe il ritiro immediato del Nasara, l’“uomo bianco” nel dialetto Mossì, dal continente. In attesa di questo esodo biblico che porrebbe fine all’oltraggioso sfruttamento economico di cui i popoli africani sono violentemente oggetto da secoli, noi che viviamo da quest’altra parte della luna non possiamo certo voltare lo sguardo fingendo nulla.
L’intera Africa sta attualmente vivendo una crisi drammatica. Carestie, epidemie e guerre sono all’ordine del giorno e l’allarme è continuo in molte zone. Per farsi un’idea del disastro attualmente in corso consiglio di visitare il sito web www.emergenzaafrica.it. Bisogna intervenire e in verità tutto l’universo multiforme della cooperazione internazionale lo sta facendo senza riserve seppur indebolito dalla forte crisi economica che sta interessando tutto l’occidente.

Il dubbio che qui si pone riguarda più che altro la strategia d’intervento. L’approccio giusto dovrebbe mirare a una cooperazione riparatrice più che rivelatrice. Si dovrebbe aver cura solamente di risolvere i problemi contingenti e predisporre le fondamenta per una rinascita socioeconomica accogliendo le richieste delle popolazioni locali senza porre limiti o veti di natura tecno-economica a tali richieste.
Al contrario buona parte della cooperazione si muove ancora in maniera militante con la speranza, il più delle volte involontaria, di lavorare per favorire/imporre alle popolazioni africane il nostro modello di sviluppo e i nostri stili di vita. Mi raccontava qualche giorno fa una mia amica appena di ritorno dal Burkina Faso che la direttrice dell’orfanotrofio in cui era in visita possedeva un computer donatole da qualche organizzazione umanitaria. La signora lo teneva acceso tutto il giorno (anche la notte) anche se ci lavorava pochissimo non conoscendo la maggior parte dei software. Tale spreco contribuisce ad aumentare il costo della bolletta elettrica che ogni mese l’orfanotrofio fatica a saldare. È giusto fornire questo genere di strumenti senza un’adeguata formazione tecnica? Non è una violenza? Non è un atto teso a diffondere il nostro modello di sviluppo a popolazioni che forse per storia e cultura avrebbero maturato un’altra via di progresso?

Al di là di questo piccolissimo esempio questo genere di cooperazione perpetra sotto mentite spoglie l’imperialismo che fino ad oggi ha contribuito a distruggere la cultura e l’economia africana. Fortunatamente in Africa sono presenti ancora villaggi che vivono esperienze comunitarie in un rapporto diretto e forte con i cicli della natura, la quale non è rimossa e deturpata come qui in occidente, ma è elemento centrale e irrinunciabile della vita sia quando è benigna sia quando è maligna. Questo mondo non ancora compromesso del tutto con il capitalismo globalizzato deve tornare libero e decidere da solo il suo destino. La buona cooperazione anziché omologare dovrebbe favorire autonomamente questo processo virtuoso di emancipazione sociale, economica e politica. Anche perché, ad esser franchi, i nostri metodi di produzione inquinanti, gli assurdi stili di vita che proponiamo e l’idea di benessere basata sul denaro sono tutto fuorché un esempio di civiltà da esportare.

di Gianfranco Marcucci

L’ANIMO poggiato alla luna

633 270 Animo ODV

Animo Onlus
C’è una brezza pungente stasera il vento ti entra nelle narici quasi con violenza e lascia che l’odore salino del mare risvegli ricordi, sensazioni, immagini. C’è il rumore del mare che accompagna i miei giorni e da questo rumore, l’ho compreso subito, non puoi più fuggire. Vedo il ragazzo africano ripiegare le sue coperte, il vento complica l’operazione., s’intrufola tra le pieghe di quei tessuti colorati e lui sembra giocare con un aquilone: l’Africa, la terra rossa assetata, ormai è un chiodo fisso. L’Africa che si sente anche se è silenziosa, l’Africa nera e nuda la terra d’origine la madre terra la terra che riconsegna, rigenera e riequilibra, la terra che stordisce e fa piegare le ginocchia ma non fa mai abbassare la testa. La terra degli occhi neri, lucidi e umidi del suo popolo, occhi d’ebano che hanno dentro il segreto della sopravvivenza, l’indotto del sacrificio e la forza della speranza. L’Africa che sorride.

Mi è entrata dentro l’Africa e alzo gli occhi perché la mia luna è la stessa che può vedere la mia “sorella maggiore” che in questo momento è lì, la ragazzina col ciuffo che ha avuto paura ma è andata avanti comunque e già so che ritornerà con occhi diversi. In quella terra ha sentito il cielo più vicino e ha sentito una mano afferrarla e condurla come può fare… non so, un padre che porta per mano sua figlia.

E poi penso alla donna guerriera nella terra nera dove la forza vera sono le donne: quelle che mandano avanti la società, quelle che portano un figlio in grembo e un altro sulla schiena con in testa il raccolto del giorno. Sarà arrivata gridando e avrà alzato un polverone rosso con quel suo passo deciso e poderoso, avrà organizzato i campi, avrà detto mille volte “non la possiamo accettare questa fame, questo disagio”, lei che la vita l’ha presa di petto per necessità, lei che poi alla fine avrà sicuramente pianto e col suo pianto avrà innaffiato una terra arida ma non persa.

E immagino il sorriso dolce della ragazza che mi ha promesso che avrebbe registrato tutto col cuore e non con la testa, che i suoi occhi questa cosa te la lasciano intuire subito senza bisogno di specificare. Avrà scattato foto, avrà chiesto a se stessa perché il mondo a volte sembra andare alla rovescia. Avrà sentito odori, visto colori, riconosciuto facce lì dove un sorriso riporta subito il cuore all’equilibrio giusto, avrà dispensato abbracci e guardato la gente fissa negli occhi come a rubare un po’ d’anima.

E se lui che in Africa non va, ma torna, chissà se avrà ritrovato ciò che aveva depositato su quella terra battuta, se avrà ritrovato i suoi piccoli abbracci, se l’Africa l’avrà riconosciuto e gli sarà stata riconoscente, se l’emozione di un lavoro umanitario portato a termine sia equiparabile alle emozioni occidentali, chissà se poi venendo via abbia confessato a questa terra ormai adottata quanto lei gli sta ridando indietro, quanta emozione, quanta energia.

Ecco, stasera la luna crea un ponte tra la mia casa e l’Africa ed improvvisamente nessuno è più solo. Ciò che sento so di non sentirlo solo io, perché in fondo la ricerca dell’Animo non è altro che la ricerca di un obiettivo da condividere e, se trovi questa strada, sarà l’Animo a riportarti sempre a casa, ovunque essa sia!

di Nadia Belotti

ANIMO torna a SUD! Al via la seconda spedizione di Animo

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Animo Onlus
ANIMO torna a SUD! L’emozione di chi parte è forte come quella di chi resta.
In questi mesi abbiamo lavorato alla grande oltre ogni aspettativa. La partecipazione delle persone vicine ai nostri progetti è stata incredibile. Il progetto della scuola di Yerba Peulh (9.000 €) è stato realizzato con estrema velocità. Le bomboniere solidali stanno riscuotendo ottimi risultati. Il gruppo associativo si
allarga giorno dopo giorno. Stanno per partire nuovi progetti nelle scuole del territorio, ci stiamo adoperando per far partire le adozioni a distanza. E’ quasi pronto il progetto di microcredito con una cooperativa di donne del Burkina Faso. Insomma stiamo crescendo. E tutto questo grazie a voi che ci state vicino e che ci sostenete ogni volta che mettiamo in atto le nostre iniziative.
La spedizione che sta partendo in queste ore avrà un calendario ricco d’impegni. Tornerà nell’orfanotrofio di Yako per controllare il PROGETTO MISOLA (progetto di animo – natale 2011), sarà ospite della comunità di Yerba Peulh e in quell’occasione verrà dato l’inizio ai lavori di ristrutturazione della scuola. Incontrerà la cooperativa femminile di Tanghin Dussouri, che produce sapone, per far partire il progetto di microcredito. Visiterà l’orfanotrofio di Sissin nella capitale per organizzare le adozioni a distanza. Farà un sopralluogo a Bassi e Zanga per constatare i reali giovamenti che quelle popolazioni hanno ricevuto con la costruzione di una diga. Si recherà a Pilimpincou per conoscere la comunità locale e per parlare del progetto della diga che ANIMO vorrebbe realizzare in quella zona. Farà visita alla comunità di Siny e controllerà i lavori di costruzione della scuola (progetto di Bambini nel deserto).
E poi incontrerà l’Africa con le sue contraddizioni e con il suo fascino, con i suoi odori e con i suoi colori. 
La spedizione formata da Emiliano Giacinti Sara Candelletta Alessia Lana e Maria Adelaide Navarra si appresta a dar inizio al viaggio che come sempre accade sarà anche un’esperienza personale, una nuova tappa del loro Cammino individuale. Da presidente dell’Associazione sono convinto che sarà nel ritorno l’inizio del loro vero viaggio. Torneranno e saranno diversi. Torneranno con la consapevolezza che esiste un’altra parte della luna che non ha solo bisogno di prendere ma che vuole dare tanto anche noi. L’energia che avranno al ritorno sarà nuova benzina per il motore dell’Associazione. Una benzina potente, pulita e colorata. Che profumerà d’Africa.
Buon ritorno a SUD (come dice Battiato in “giubbe rosse”)… e ANIMO!

Gianfranco Marcucci

La mia Africa è nel volto di Salif

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La mia Africa è nel volto di Salif, il ragazzo bambino che lavora come operaio tuttofare nell’orfanotrofio. In mezzo ai tanti bambini rumorosi e impegnativi che hanno accompagnato le nostre giornate a Yako quel viso schivo e operoso, poteva passare inosservato ma se lo guardavi bene capivi che rappresentava il futuro di molti di quei bambini che abbiamo incontrato in giro nelle strade del Burkina Faso. Salif ha 13 anni è in quella fase della vita che da noi si chiama adolescenza ma a Yako è già considerato un adulto in tutti i sensi. Lavora in continuazione. Arriva in orfanotrofio quando il sole è ancora flebile, nel chiaroscuro che separa il giorno dalla notte e da subito inizia a lavorare. Si occupa dei piccoli appezzamenti di terreno all’interno dell’orfanotrofio coltivati a miglio e cipolle. Vanga, zappa, sdradica la malerba, non annaffia perché ci pensa la pioggia essendo questa la stagione e poi si sposta per governare le cinque capre dell’orfanotrofio. E poi sistema la legna, gira la ruota del pozzo, aiuta a trasportare i secchi d’acqua. Insomma non si ferma mai fino a sera con il sole appena tramontato quando riprende il suo carretto trainato da un mulo che lo riporta a casa. L’unica pausa che fa è a pranzo quando appartato in un angolo mangia con le mani voracemente il pasto dell’orfanotrofio, quel pasto che lo sfama e che rappresenta la sua paga giornaliera. Come accade per la maggior parte delle persone che lavorano qui.

In quest’altra parte della luna Salif è considerato un uomo ma il suo sguardo quando osserva gli altri bambini intenti a giocare tradisce il ruolo che la comunità gli ha affidato. Porta avanti il suo lavoro con dedizione, con competenza e sembra quasi con convinzione. Ma quando lo vedi costruire l’altalena insieme a Cesare, uno dei volontari del nostro gruppo, cogli immediatamente la voglia di stare dall’altra parte. È uno di quei desideri che nasce da dentro e che seppur uno cerca di contenerlo dentro di sé gli occhi fanno intravvedere quello sconquasso nell’anima, quell’istinto fanciullesco, insito dentro di lui, che gli ordina di buttare tutti gli altri strumenti di lavoro e salire su quel pezzo rettangolare di legno legato a due corde e spingere con i piedi a terra fino a lasciarsi andare in alto, per scendere e poi risalire, dondolarsi nell’aria per sentirsi chissà un uccello, un aereo, un supereroe, o più semplicemente un bambino che gioca.

Ma non lo fa, gli hanno detto che lui è un uomo. Lo si vede chiaramente che rimarrà in lui quel senso di impotenza, di auto castrazione. Tocca le corde dell’altalena come se fossero le trecce di una donna, con una smania che disarma. Lo guardo, mi guarda. È una frazione di secondo. E aiutandomi con un gesto della mano rompo gli indugi: “vai Salif, fatti un giro!”. Le mie parole sono per lui un dono inaspettato calato dal cielo. Sale velocemente sull’altalena e si lascia andare. Su e giù. Stop. Scende e spalanca la bocca mostrando i denti bianchi. Sorride come un bambino, anzi sorride perché è ancora bambino. Ma poi si ricompone e torna ad essere uomo, come è normale che sia qui a Yako.

di Gianfranco Marcucci

La guerra silenziosa – Il racconto dei due Medici in spedizione con noi

633 270 Animo ODV

Animo Onlus
Quando la vita e la professione ti danno l’opportunità di fare un’esperienza unica e così importante per la tua crescita e il tuo futuro, non puoi che condividerla con chi, per cultura e sensibilità si domanda cosa realmente accada in un paese povero e difficile dall’altra parte del mondo. Per questo vogliamo raccontarvi quanto coinvolgente sia stata la nostra avventura, quella di due medici italiani, in un orfanotrofio a Yako in Burkinia Faso in uno dei paesi più poveri del mondo.

Detto fatto. Eccoci in Africa insieme ad altri nove compagni di viaggio. Che dire, l’ansia e la preoccupazione per quello che abbiamo deciso di fare ci assale ma siamo convinte che anche una goccia nel deserto è importante e quindi armate di tutte le buone intenzioni superiamo i dubbi e paure che ci pervadono.
Il nostro viaggio che inizia a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, ci dà l’immediata consapevolezza della devastante povertà in cui versa quello che è considerato uno dei paesi più poveri al mondo. Le strade non conoscono asfalto, la terra rossa delle strade è un tutt’uno con le misere case fatte di fango, le macchine sono poche e malridotte mentre motorini e biciclette imperversano sulle strade.
Con trepidazione e curiosità visitiamo l’ospedale Saint Camille ed in particolare l’ambulatorio pediatrico che ci mette subito in contatto un una realtà durissima: la sanità è tutta a carico del paziente e quindi se hai i soldi per pagarti visite, farmaci e ricoveri potrai essere curato altrimenti sarai, come dire, spacciato. Ci ritroviamo quindi, grazie all’ospitalità delle suore infermiere, a visitare con loro i bimbi e tra una parassitosi, un attacco di malaria, la grave malnutrizione, ci rendiamo conto che quel bimbo di 18 mesi investito da un motorino, non potrà mai giovarsi di una radiografia alla gamba e del gesso da mettere in un altro ospedale (la sua gambina è fratturata) se non grazie alla nostra fortunosa presenza (solo il corrispettivo di 10 euro). E allora il cuore si stringe nel vedere il volto fiero e dignitoso di quella mamma che con il volto segnato da fame e sofferenza mille volte ci ringrazia.
Noi occidentali siamo certamente maestri di norme igieniche ed efficienza che sentiamo di dover trasmettere al popolo africano per rendere la loro vita migliore, ma quanto abbiamo da imparare in termine di dignità, altruismo, generosità!

Le infermiere ci hanno confermato che quasi il 50% della popolazione vive in uno stato di povertà e che non è in grado di soddisfare nemmeno i bisogni fondamentali. La grave malnutrizione è uno dei problemi emergenti che riguarda circa il 30% dei bambini con meno di 5 anni che si trovano in condizioni di sottoalimentazione cronica. Il tasso di mortalità infantile è molto elevato nei bimbi prima dei 5 anni che a causa delle gravi condizioni di defedamento fisico più facilmente si ammalano di malaria, dissenteria, parassitosi intestinali e infezioni broncopolmonari.
Anche le donne in età fertile sono vittime di un cronico deficit energetico da malnutrizione e. ogni anno, oltre 2000 donne muoiono in Burkina Faso per complicazioni legate alla gravidanza e al parto perchè non possono raggiungere le strutture mediche in grado di curarle, o perché vi arrivano troppo tardi. Molte muoiono perchè i loro familiari non possono pagare l’ospedale. Altre muoiono a causa delle carenze di sangue, farmaci, attrezzature o personale medico qualificato.
Dopo la breve sosta nella capitale ripartiamo per la nostra meta finale: Yako, destinazione l’orfanotrofio WEND-MIB-TIRI ( che vuol dire: Dio sa che loro ci sono). I pochi orfanotrofi sono pieni perché molti sono i bambini che ogni giorno vengono abbandonati ( per la morte dei genitori o per l’ impossibilità a sfamarli).
A WEND-MIB-TIRI ci sono trenta bimbi, tre di 7, 8 e 9 anni, ma la maggioranza ha tra i 7 mesi e i 4 anni
La povertà e la miseria qui è anche maggiore che nella capitale. Il loro pasto quotidiano è riso, mais , miglio e talvolta un po’ di pesce essiccato e questi bimbi possono addirittura ritenersi fortunati perché, a differenza di quelli che si trovano fuori dall’orfanotrofio, essi, all’ora dei pasti, trovano sempre qualcosa da mangiare.

Troviamo bambini con grossi pancioni e occhi bellissimi, ma tristi che, con il passare dei giorni della nostra permanenza, lasciano il posto a sguardi luminosi, grandi abbracci e sorrisi spensierati.
Il nostro compito, in ambito sanitario prevede la valutazione clinica e nutrizionale dei 30 bambini presenti nell’orfanotrofio. E così improvvisando un ambulatorio da campo, abbiamo visitato , valutato peso, altezza, circonferenza del braccio, eseguito un elettrocardiogramma, (e poi…giocato con loro) al fine di ricondurre le caratteristiche fisiche dei bimbi a tabelle elaborate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla malnutrizione.
Soltanto due bimbi si trovano in buone condizioni di nutrizione, tutti gli altri mostrano gradi variabili di malnutrizione e tre hanno mostrato grave denutrizione.
E’ per questo che alla nostra partenza abbiamo organizzato un programma di rialimentazione per i bambini più fragili, acquistando la misola un composto costituito da legumi e cereali con un contenuto di aminoacidi simile a quello delle proteine animali (farine di miglio, soia, arachidi, ferro e vitamine complesse). La denutrizione rende questi bimbi particolarmente fragili e facilmente esposti a malattie per il deficit di difese immunitarie. L’alta mortalità di questi bambini ci riporta al dato inquietante che colloca il Burkina Faso al 174° posto su 177 paesi censiti.
La vita di questo popolo è una guerra continua contro la fame e per la sopravvivenza quotidiana , una guerra silenziosa senza i clamori o i rumori squassanti delle armi da fuoco, una guerra chiusa nei confini dei villaggi che non esce dal burkina o dai confini dell’africa, troppo silenziosa per essere percepita dai popoli dell’occidente e che continua a mietere continuamente vittime fragili, donne e bambini dimenticati e volutamente ignorati.

di Dott.ssa Assunta Santonati e Dott.ssa Nadia Fraone

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